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Giovedì, 19 Giugno 2014 12:53

L’8 settembre 1943

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dal volume ”Il monello d’Amalfi" di Angelo Tajani

8 SETTEMBRE: L'ARMISTIZIO

 


Anche se in alcuni ambienti ci si dichiarava certi di un'imminente vittoria, cominciavano a ser­peggiare notizie poco rassicuranti sul reale esito delle campagne in corso. In casa, in certe sere, ci azzardavamo ad ascoltare Radio Londra, dopo esserci assicurati che non ci fossero spiragli di porte o finestre da cui potesse trapelare la voce dell'annunciatore.

Il più delle volte, però, tutto quel che riuscivamo a captare erano frammenti di frasi, tra sibili e rumori di ogni genere.

   Poi d'improvviso vi fu un accavallarsi di notizie: "Gli americani sono sbar­cati in Sicilia e si dirigono verso il nord", "Il governo è a Raito e il Re si è rifugiato a Ravello”, “No, il re si è trincerato nella Torre dello Scarpariello", "Hanno visto entrare Sua Maestà nel palazzo Episcopio a Ravello", "Si dice che Badoglio stia firmando l'ar­mistizio a Cassibile con gli alleati".

   Quest'ultima notizia, appresa da un gruppo di giovani da Radio Londra, fece scatenare il putiferio in paese. L'assembramento della folla provocò la reazione delle truppe italiane di stanza nel pastificio, costrette ad aprire il fuoco verso il mare nel timore che si stesse verificando una sommossa popolare. In realtà, si trattava di una manifestazione spontanea di gioia collettiva. Sul lungomare, ci imbattemmo in un gruppo di giovani preceduti da una bandiera tricolore che gridavano a squarciagola. Contagiati dall'euforia generale, ci accodammo al corteo gridando: “È FINITA!”

   Dopo aver attraversato il lungomare Scario, scendemmo in spiaggia; avevamo appena cominciato a cercare dei sassi piatti da lanciare sul pelo dell'acqua per vedere chi riusciva a farli rimbalzare più volte sulla superficie, quando dalla zona del porto udimmo lo scoppiettio delle mitragliatrici. Presi dalla paura, corremmo verso la piazza e ci infilammo nei vicoli, sentendoci protetti da quelle strettoie dentro cui avevamo giocato tante volte a rincorrerci; arrivammo a casa col cuore in tumulto.

   A mia madre che m'interrogava sull'accaduto non riuscivo a rispondere altro che mozziconi di frasi sconnesse. Il manipolo tedesco che rientrava a passo di marcia dall'esercitazione quotidiana aveva osservato incredulo il fuggi fuggi,  senza ben capirne il motivo: evidentemente, l'ufficio informazioni del Führer cominciava a per­dere colpi. 

   Quella sera andammo a letto euforici, ma il sonno fu alquanto agitato a causa delle sorde detonazioni che di tanto in tanto echeggiavano nelle mon­tagne sovrastanti. La mattina dopo, venimmo a sapere  che i tedeschi avevano fatto saltare i ponticelli della strada rotabile per ritardare un'eventuale avanzata del ne­mico e avere il tempo di congiungersi con il grosso delle truppe a Napoli.

   In piena notte fummo svegliati da frenetici colpi di batacchio sul portone: erano alcuni conoscenti che abitavano sul lungomare e che venivano a chiedere ospitalità per la notte. Raccontarono di un gran traffico sulla strada maestra, e di strani bagliori che si scorgevano in mezzo al mare.

   Il nonno prese il binocolo e scrutò l'orizzonte, turbato in viso, ma senza sbi­lanciarsi troppo, com'era nelle sue abitudini. Poi riferì che sì, in effetti si vedevano dei bagliori, ma che potevano benissimo essere i fuochi d'ar­tificio di Santa Maria di Castellabate. Era la vigilia dell'8 settembre, giorno della festa della Madonna...

   Questa volta il nonno si sbagliava: qualche ora dopo, accorrendo in terrazza richiamati dal trambusto, potemmo vedere anche noi il bagliore dei proiettili traccianti che solcavano il cielo mentre scendevano lentamente verso il ma­re, illuminando a giorno la costa e la sommità del campanile.

   Era ormai notte fonda quando ci rendemmo conto che gli angloamericani stavano per arrivare. Immediatamente nacque un'accesa discussione. Gli adulti erano preoccupati e se ne capiva il motivo. Gli Alleati erano degli sconosciuti dei quali sapevamo soltanto ciò che avevamo appreso dalla martellante propaganda negativa del regime. Ma chi era il nemico in quel momento? Quello al quale avevamo voltato la schiena e si arroccava sui monti alle no­stre spalle, o quello che stava per sbarcare?

   Nel tinello, nonna Checchina, che nel frattempo aveva preso posto sulla sua poltrona che non cedeva mai a nessuno, sentenziò che alle prime luci dell'alba ci sa­remmo trasferiti tutti in cartiera: proposta accolta all'unanimità, in special modo da noi nipoti, felici di poter vivere libera­mente in mezzo alla boscaglia e giocare in riva al fiume. An­cora una volta, si dimostrò che in casa nostra vigeva un matriarcato ferreo.

   Il nonno, seduto dietro le imposte delle finestre dai ve­tri schermati con carta blu, quella che si usava per avvolgere gli spaghetti, con­trollava le due vie di accesso alla valle attraverso lo spiraglio lasciato socchiuso nella stanza immersa nell'oscurità, come se aspettasse la visita di qualcuno che mai arrivava.

    Sul sofà le signore discutevano animatamente, mentre gli uomini avevano preso posto sulle sedie e facevano cerchio intorno alla padrona di casa. Noi bambini, insieme con i nostri coetanei appena arrivati, en­travamo e uscivamo tenuti a bada dal reverendo, figlio di una delle signore. Dal nostro osservatorio in terrazza fornivamo notizie aggiornate sui "fuochi d'artificio", come ci ostinavamo a chiamare i razzi luminosi. A un certo punto, le donne decisero di recitare il Santo Rosario, cui il reverendo ci costrinse a partecipare, seduti sul tappeto.

   Eravamo arrivati al terzo mistero doloroso, quando si udì una detonazione che fece sospendere per un attimo la preghiera, subito ripresa con maggior foga; al secondo mi­stero gaudioso, qualcuno dalla strada gridò "A Maiori si spara!". Tutti, grandi e piccini, accorsero in terrazza, ansiosi di avere rag­guagli più precisi. Era Michele, il vicino di casa, che si era avven­turato fin giù in paese e aveva saputo da un carrettiere che i tedeschi si erano arroccati sul colli di Tramonti per bloccare il valico di Chiunzi. Con le mitragliatrici e i pezzi di artiglieria leggera sbarravano l'accesso alla spiaggia, impedendo lo sbarco ai mezzi anfibi alleati, mentre le bocche da fuoco delle navi cercavano di centrare le posta­zioni tedesche.

 

 

 

   Pian piano cominciò ad albeggiare, e il sole apparve all'orizzonte. Il mare era scomparso come per incanto, e al suo posto si vedeva un'immensa distesa di navi. Non si riusciva a scorgere una goccia d'acqua, tante erano le unità che durante la notte avevano calato gli ormeggi nel golfo. Cercammo di contarle, come facevamo con gli aerei quando andavano a bombardare l'Africa, ma come al solito ci ingarbugliammo nei numeri.

   Quanti bambini da queste parti hanno imparato a contare volgendo il ditino verso il cielo, incuranti del rombo assordante dei bombardieri e del pericolo che incombeva sulle loro teste! Raccoglievano da terra penne e oggetti misteriosi lanciati dagli aerei che sorvolavano nottetempo la zona, e rimanevano poi mutilati e sfregiati per tutta la vita dagli ordigni che esplodevano nelle loro manine.

   Un giorno anch'io, mentre attraversavo piazza del Duomo, notai in terra una stilografica; memore delle raccomandazioni degli adulti, mi guardai bene dal toccarla. Non ero certo che si trattasse di un dispositivo bellico, ma il solo pensiero che avrebbe potuto esplodermi in mano mi causò un timore tale da farmi abbandonare immediatamente l'idea di raccoglierlo.

   Intanto in casa fervevano i preparativi per il trasferimento della caro­vana familiare nella Valle dei Mulini. Riempiti i pagliericci con la juta, ar­rotolate le coperte, impaccate le scarse provviste, legati ai guinzagli Fritz e Fido, i due cani da caccia, fedeli seguaci del nonno durante le sue ormai rare battute nella selva, ci mettemmo in cammino lungo la gradinata prima d'imboccare la stradina accidentata che portava alla cartiera.

   Strada facendo, incontrammo alcuni boscaioli che con il carico di fascine sulla schiena scendevano in paese per consegnare il combustibile ai fornai. Dalle loro parole, ci accorgemmo che erano completamente all'oscuro degli ultimi eventi; con la coppola in mano, in segno di rispetto, e incuranti del peso che gravava sulle loro spalle, ascoltarono pensosi le notizie riferite dal nonno. Alla fine uno di loro replicò laconico: “In paese la gente ha fame, e il pane non può essere fatto senza la legna! È meglio che ci affrettiamo a consegnare le fascine e a ritornare in montagna. Buon giorno a' signuria!” e si accomiatò, seguito dagli altri e dalle donne che, al passo, intonavano " ‘A limunara", scendendo quasi di corsa per le scale e battendo il tempo con il lungo bastone, quasi a voler indicare la presenza di ogni gradino a quelli che seguivano.

   Alla fontanella della Madonna del Rosario facemmo una sosta per ripren­dere fiato e rinfrescarci il volto e le mani. Tra i ragazzi era nata un'accesa discussione circa l'arrivo degli americani; i più grandi mettevano in allarme i piccoli, parlando di pellerossa con le piume in testa che sarebbero arrivati in paese cavalcando all'impazzata su focosi destrieri, come quelli visti in un film al cinema Diana.

   Da parte mia, mi rammaricavo della partenza dei soldati tedeschi proprio ora che avevo imparato a declamare così bene una poesia di Goethe che avrei dovuto recitare al Santa Caterina il lunedì successivo.

   "Ne imparerai una di Longfellow, magari quella che scrisse durante il suo soggiorno qui da noi, e la farai sentire al primo ricevimento che daranno gli americani", fu il brusco commento di un'anziana signorina. Nelle sue parole c'era una tradizione di generazioni e generazioni della nostra gente, abituata ad assoggettarsi docilmente allo straniero. Erano state tante le dominazioni avvicendatesi durante i secoli passati che il detto napoletano, maliziosamente coniato per la capitale, si addiceva alla per­fezione al nostro modo di pensare: "'Nu papa more e n'ato se nne fa, e Roma sempe ‘nfesta sta!" ("Un papa muore e un altro viene eletto, e Roma è sempre in festa!")        

 Eravamo quasi arrivati all'ultima rampa prima del viottolo della cartiera, quando sentimmo sibilare dei colpi d'arma da fuoco che attraversavano l'aria sopra le nostre teste. Ci appiattimmo contro la roccia, nascondendoci fra i roveti, incuranti delle spine, e ve­demmo la scia dei proiettili che fendevano il cielo azzurro per poi sparire oltre le colline.

   "Dalle navi sparano cannonate cercando di colpire quelle in rada a Napoli, oppure nei cantieri navali di Castellammare", sentenziò Guido, il figlio del dentista che abitava al piano di sotto ed era un assiduo frequentatore della famiglia.

   Per l'intera giornata, e anche nei giorni successivi, sulle nostre teste continua­rono a fischiare i proiettili dei cannoni. Di tanto in tanto, qualche ordigno esplodeva nell'aria, ricadendo a terra in schegge arroventate.

   Fu proprio il luccichio di uno di quei frammenti ad attirare l'atten­zione della mia sorellina che aveva poco più di due anni. Mentre giocava sulla terrazza della cartiera, aveva visto cadere il pezzettino di ferro incandescente a poca distanza dai suoi piedini e stava per afferrarlo con la manina: fu allora che Riccardo, che aveva tre anni più di lei, in­tuito il pericolo, colpì il braccio della sorellina con un violento calcio che mandò la piccola a gambe all'aria, ma nello stesso tempo la salvò da una si­cura mutilazione.

   Le gride disperate della piccola Franca fecero accorrere  la nonna che, afferrato il nerbo di bue che teneva sempre pronto dietro il portone della cartiera per domare i cani e spaventare i bambini, cominciò a farlo roteare nell'aria, credendo che la nipotina fosse stata bersaglio di una delle nostre solite birichinate. Solo quando Riccardo le mostrò la scheggia ancora rovente sul lastricato, la vedemmo calmarsi e osammo sgusciare fuori dal nascondiglio in cui ci eravamo rifugiati.

   Per giornate intere continuammo a esplorare ogni angolo del fabbricato, avven­turandoci come speleologi in erba fra androni e cunicoli, grotte e sotterranei dalle pareti marce e corrose dall'umidità. Trovammo vecchie ruote di pietra, usate come macine, ruote di ghisa con cinghie di trasmissione in cuoio, ancora in ottimo stato, e catturavamo ranocchi e lucertole con cui spaventa­vamo le ragazze.

   Qualcuno ricordava di aver sentito dire che, mettendo la coda di una lucertola ancora in movimento sotto l'ascella, ci si liberava del fastidio del solletico: ci provammo tutti, fra i gridolini dei più piccini e le smorfie di ribrezzo delle fanciulle.

   Usciti nella selva, coglievamo noccioline e frutti di bosco, mentre osserva­vamo i movimenti guardinghi della volpe, sempre pronta a lanciarsi sui coniglietti che riuscivano a insinuarsi attraverso le fessure delle imposte.

   Una notte il nonno, appostatosi con una vecchia carabina alla finestra dello studio dove custodiva i registri della contabilità, approfittando del chiarore della luna, riuscì a centrare in pieno il famelico ani­male che decimava l'unica provvista di carne della famiglia. Il rimbombo del colpo ci fece sobbalzare dal pagliericcio e accorrere nello spanditoio della carta, proprio nell'attimo in cui il nonno rientrava raggiante, tenendo sollevata la preda per la folta coda.



Tre giorni dopo lo sbarco sulla spiaggia di Maiori, gli angloamericani erano già diventati di casa, e la popolazione della zona barattava allegra­mente uova al tegamino, patate fritte, frutta fresca e pomodori con sigarette, scatolame, pane bianco e salsicciotti confezionati. Questo fu il clima in cui dalle nostre parti la guerra ebbe termine, mentre nel nord si sarebbe ancora protratta per circa due anni

 

Ultima modifica il Giovedì, 19 Giugno 2014 13:04
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